Camminando per la Piazza della Signoria, poco discosto dalla statua del Nettuno, in direzione di via de’ Calzaioli, si scorge a terra una lapide commemorativa in memoria del punto esatto dove il frate Girolamo Savonarola, assieme ai due confratelli Domenico Buonvicinie e Silvestro Maruffi, furono arsi sul rogo il 23 maggio del 1498. L’ avvenimento è ricordato annualmente con una cerimonia detta “la Fiorita”, nel corso del quale fiori e petali vengono deposti in quello stesso giorno sulla lapide commemorativa.

lapide savonarola la fiorita

Il luogo ricordato dalla lapide circolare è quello in cui i tre religiosi furono dapprima impiccati e successivamente arsi. Il Savonarola è passato alla storia per aver esercitato una sorta di governo teocratico dopo la cacciata da Firenze di Piero de’ Medici nel 1494, detto “il Fatuo”.

La colpa ascritta al frate domenicano, il Savonarola, era formalmente quella di aver divulgato pubblicamente insegnamenti difformi dall’ ortodossia cristiana, ma in realtà gli si rimproverava il suo acerrimo vigore nel biasimare non solo i suoi concittadini di Firenze, dediti alla prostituzione, alla sodomia ed al lusso più sfrenato, ma anche la corte papale. Venne pertanto dapprima scomunicato, catturato presso il convento di San Marco, ed infine bruciato. Curioso è il nome affibbiato ai suoi seguaci: essi venivano chiamati “Piagnoni”, per via delle penitenze cui si sottoponevano e perchè sostenevano il frate che sempre deplorava, con continua lamentazione, la moralità dei suoi tempi.

I suoi avversari, al contrario, venivano chiamati “Compagnacci” poiché conducevano una vita quanto possibile dissipata e licenziosa.

Il giorno del supplizio, i tre condannati, dopo la detenzione nella cella detta “l’Alberghetto”, posta nella torre di Palazzo Vecchio, furono prima condotti sulla cosiddetta “Ringhiera”, cioè l’ Arengario di Palazzo della Signoria, e lì “degradati”: tale cerimonia consisteva nello “spretare” dagli ordini sacri chi veniva condannato come eretico. In pratica, se apparteneva al clero, come Savonarola ed i suoi compagni, il reo veniva umiliato privandolo di tutti i paramenti sacri ed infine lasciandolo in sottoveste. Venivano infine “tosati” i polpastrelli delle mani, venivano cioè abrasi con un ferro rovente, per rimuovere il crisma con il quale erano stati ordinati sacerdoti.

Dopo la degradazione, furono condotti su un palchetto che, dalla Ringhiera, si spingeva nel mezzo della piazza, fino nel punto in cui sta oggi la lapide, dove era stata eretta una forca per impiccarli: narrano le cronache che il primo ad andare al patibolo fu frate Silvestro; toccò quindi a frate Domenico da Pescia, ed infine al Savonarola.

Sempre i cronisti ci riferiscono che, appesi i tre condannati, mentre ancora non erano morti, fu disfatto in un attimo il palco e sostituito da una catasta di legna e scope, sotto la quale era stata messa una grande quantità di polvere da sparo.

La Signoria ordinò che ogni minimo residuo dei tre corpi fosse consumato dal fuoco, temendo che qualcuno dei seguaci del frate si impadronisse degli avanzi dei giustiziati come relique. E per essere sicuri che anche le ceneri andassero disperse, furono trasportate con carrette fino all’ Arno e gettate nell’ acqua.

Particolarmente rappresentativo del supplizio del Savonarola e dei suoi compagni è il dipinto anonimo conservato al Museo di San Marco, che ritrae il momento del rogo dei tre corpi senza vita.

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